Con la nota di aggiornamento al Def oggi il governo si gioca la faccia. L’Italia, invece, si gioca le tasche. E così, mentre oggi capiremo se di questa colorita maggioranza prevale l’anima gialla o quella verde, mentre sapremo se abbiamo scherzato con il professor Tria (e i suoi epurandi funzionari) o se per caso siamo stati solo in una lunga campagna elettorale, gli italiani si preparano a pagarne le conseguenze.
E’ la solita, vecchia e noiosa, storia del debito, dei BTp e dello spread.
Come ha ottimamente raccontato ieri sul Sole Andrea Franceschi, i grandi fondi internazionali sono in massima allerta: rispetto a qualche settimana fa lo spread è calato, è vero, ma si tratta di una fiducia a tempo. In pratica: se il sismografo si impenna, tutti pronti a vendere BTp. Abbassandone il valore e aumentando gli interessi da pagare a chi ne accetta il rischio.
Ieri a Milano ho preso un caffè con il responsabile italiano di una grande banca d’affari americana. Un potere forte, in teoria. A me è sembrata una persona normale. Che fa discorsi normali: non siamo cattivi e non ce l’abbiamo con l’Italia, anzi. Semplicemente guardiamo a quel che succede, ne prezziamo il rischio e agiamo di conseguenza. Compriamo se ci fidiamo, vendiamo se non ci fidiamo più. Per poi ricomprare a un prezzo più basso.
Sette anni fa il problema aveva un nome e un cognome, si chiamava Silvio Berlusconi. Oggi la situazione politica in Italia è più articolata e più complessa. E fuori dall’Italia ci sono meno protezioni: Angela Merkel traballa, l’elettorato tedesco ha perso la pazienza, Mario Draghi è a fine mandato e si è sparato quasi tutte le cartucce, trumpismi e sovranismi vari hanno surriscaldato il clima. Se poi aggiungiamo il fatto che da allora i mercati si sono assai automatizzati, all’Italia oggi possono bastare due passi falsi per ritrovarsi nel baratro.
E chi paga, nel caso? Gli italiani. Su cui, inevitabilmente e inesorabilmente, si scarica il peso dello spread, sottoforma di tasse più alte, servizi peggiori, interessi più cari. Sì perché decenni di eccezioni alle regole e di spese senza coperture ci hanno regalato un Paese che ha un debito superiore al suo prodotto interno lordo e che pertanto si ritrova non pienamente padrone del suo destino, ma – ci piaccia o no – ostaggio di chi ci ha fatto credito in passato e oggi può decidere quanto dobbiamo pagarlo. Un numero per capire meglio: solo nel 2019 il Tesoro dovrà emettere nuovi titoli diStato per 300 miliardi di euro, e ogni zero virgola di interessi in più equivale a decine di milioni di spese extra, da sottrarre a un bilancio già in equilibrio precario.
Certo si può rovesciare il tavolo o gridare contro l’iniquità delle regole per chiederne una modifica, ma la questione vera – ancora una volta – è un’altra ed è una questione di sostenibilità. Per un Paese che ha così tanti conti aperti, c’è poco da scherzare. A meno di volerne aprire altri, facendo il peggior regalo possibile a chi verrà dopo di noi.