Oltre la borsa, l’euro e lo spread: perché Mario Nava ha ragione quando dice che il mercato siamo noi

“Il mercato siamo noi”, ha chiosato Mario Nava il suo primo Consob Day. Citava Leonardo Becchetti, che nel 2012 ha scritto un libro intitolato così e che meriterebbe di essere letto. Comunque qui c’è già una notizia visto che non era scontata la citazione in un luogo liberista per definizione com’è Palazzo Mezzanotte, sede della Borsa.

Ma considerato il clima in cui si è celebrata quella che fino a (poco) tempo fa era una messa cantata, la notizia è doppia. Da giorni, soprattutto da quando in Italia si è biascicato che si potrebbe uscire dall’euro, lo spread è tornato sull’ottovolante e immancabilmente si è tornati da più parti ad additare il mercato come luogo di complotti e trame speculative contro l’Italia.

E’ così? Come raccontato domenica da Morya Longo e Gianni Trovati su Il Sole 24 Ore, è vero ma solo fino a un certo punto: da tempo siamo la preda per definizione e davanti ai terminali di mezzo mondo tutti hanno il fucile puntato contro l’Italia, superindebitata e così mediterranea nella sua indisciplina e riottosità alle regole. Ma finché il pennuto non si muove nessuno spara. E finché lo stallo politico non ha messo in discussione l’euro (o le condizioni che avrebbero portato a uscirne), nessuno ci ha sparato contro. Poi il casino, va bene, ma è bastata un’intervista chiarificatoria nel ministro Giovanni Tria a far riporre le armi.

E qui arriviamo a Nava. “Non bisogna essere ingenui”, ha premesso, “quando ci si approccia al mercato”. Ma con quella citazione becchettiana ha detto anche una cosa importante: il mercato non sono solo loro, gli altri, i cattivi, i fondi che “shortano” perché scommettono al ribasso sulle disgrazie italiote. Siamo anche noi, con le nostre responsabilità. Di quello che diciamo, se siamo amministratori. E di quello che investiamo, se abbiamo due o tre lire da parte. E finché guardiamo al mercato con diffidenza e distacco lasceremo che a fare le regole – e i prezzi – sia qualcun altro.

La sfida è politica e culturale. E riguarda anzitutto i risparmiatori, che devono essere più consapevoli, e gli imprenditori, a cui è lecito chiedere meno ritrosia a offrire anche solo un pezzo delle loro aziende migliori. Per farle crescere. Troppo semplice? Forse. Ma finché la finanza non si riaggancia all’economia reale, per un Paese così marginale come l’Italia la partita è persa ancor prima di cominciarla.