I 652 milioni in contanti che Carlo Messina ha messo sul tavolo per convincere i soci Ubi ad aderire all’offerta di Intesa Sanpaolo sono una bella somma, che probabilmente si rivelerà decisiva per le sorti della partita. Ma il rilancio del colosso nostrano è arrivato alla fine di una settimana in cui a dare i numeri sono stati anche i colossi americani. E che numeri, alla faccia della pandemia: Morgan Stanley nel secondo trimestre ha raddoppiato le attese degli analisti con 3,2 miliardi di utili, Goldman ha sostanzialmente confermato i livelli 2019 a 2,4 miliardi, JP Morgan nonostante i maxi-accantonamenti per le future sofferenze da Covid ha portato a casa 4,7 miliardi di profitti.
Banche Usa vs Europa
Ci sarebbe da discutere a lungo sulla consistenza e sul significato di questi risultati ottenuti in gran parte grazie al trading sui mercati mai così volatili come in questa fase. Ma ci ricordano la distanza che separa il mondo bancario americano da quello europeo e italiano. Per dire: JP Morgan con l’utile del trimestre potrebbe comprarsi tutta Ubi in contanti, e avanzerebbe pure qualcosa. Grosso non è bello per forza, anzi, ma questi ordini di grandezza la dicono lunga sulla polarizzazione in corso nel mercato del credito. E sulla necessità di guardare oltre, per tutti.
Compresa Intesa Sanpaolo, che prima o poi dovrà trovare il modo di uscire dall’angusto cortile domestico. Intanto, con il rilancio in contanti ha messo più di un’ipoteca su Ubi. I soldi profumano più della carta, cioè le azioni, soprattutto in questa fase di grande incertezza e grandi bisogni: dalle Fondazioni, ai grandi imprenditori e fino ai piccoli azionisti in pochi rinunceranno all’assegno firmato da Carlo Messina. È vero che “la fiducia non si compra”, come recita lo slogan difensivo di Ubi, ma è anche vero come dice un mio amico che tutti siamo in vendita, anche se ognuno ha il suo prezzo: vediamo se per i soci dell’ex popolare è quello offerto da Intesa Sanpaolo.
Che per chiudere si è rivelata capace di un’inversione a U in grande scioltezza. In tavoli come questi non si possono preannunciare certe mosse, ma dopo aver negato ogni possibilità di rilancio per mesi il vertice della banca ha spiegato che in nome della “pace sociale” (cioè dei soci) si può anche cambiare idea.
Ci sta.
Il cambio di corsia
Manovra più o meno analoga l’ha fatta, notte tempo, il Governo su autostrade. Due giorni dopo aver assicurato che lo Stato non sarebbe mai stato socio dei Benetton, ecco che da Palazzo Chigi è uscito con lo zampino decisivo del ministro Gualtieri uno schema degno di una banca d’affari che prevede una progressiva diluizione della famiglia ed evita lo spettro della revoca. Non è poco: la revoca avrebbe condannato Autostrade (e forse pure Atlantia) a un default da 20 miliardi che avrebbe travolto non solo i Benetton ma anche decine di migliaia di piccoli azionisti e fatto arrabbiare mezzo mondo, come Angela Merkel – interessata alla partita visto che in campo ci sono anche i tedeschi di Allianz – pare abbia fatto notare martedì a Giuseppe Conte. Ci siamo evitati, in pratica, una nuova puntata di quel tafazzismo finanziario in cui l’Italia è campione, tentata com’era di applicare questa volta l’inedita legge del “punirne cento per educarne uno” (copyright Morya Longo).
L’ingorgo in Europa
Per due azzardate manovre che rischiano però di chiudere due partite non banali per l’Italia, ce n’è un’altra molto più pericolosa in corso in queste ore in Europa. Evitiamo inversioni a U, sul Recovery fund c’è solo da andare diritto con le mani ferme sul volante.