Domata, si spera, l’emergenza sanitaria, inizia a prendere forma una crisi economica senza precedenti. Di domanda e di offerta, di quantità e qualità: basta vedere cosa dice la Bundesbank, che per la prima volta parla di recessione profonda per l’economia tedesca, o cosa è capitato al petrolio, dove l’incrocio tra mercato fermo, depositi pieni, finanza iperattiva e politica impotente ha portato il valore (virtuale) del barile in negativo. Tradotto: ti pago per portarmelo via.
Altro che terra incognita, come Mario Draghi – ricevendo la laurea honoris causa in Cattolica l’autunno scorso – ha definito la scelta di portare i tassi in negativo adottata negli anni scorsi da una Bce intenta a riavviare una macchina ingolfata. Qui siamo finiti su un pianeta sconosciuto di una galassia che i nostri telescopi non avevano mai neanche intravisto.
In questa tempesta l’Italia ci è finita in mezzo, si è fatta sorprendere, ha reagito e fatto cose. A modo suo, ma le ha fatte. Ma quel capitolo è chiuso: ora che emerge la difficoltà di tutti non solo a reagire ma anche solo a comprendere la portata della tempesta l’Italia si ritrova impotente come e più degli altri. Perché le nostre armi, noi che siamo un po’ più vecchi e un po’ più spompi dei nostri vicini, sono spuntate.
Il debito pubblico, gli interessi privati, la burocrazia ci appesantiscono proprio ora che dovremmo essere lucidi nell’analisi e immediati nell’azione.
Basta vedere cosa è accaduto con le misure del decreto Cura Italia, mai così generoso nell’impegnare lo Stato a dare e garantire. Proprio le garanzie prestate dallo Stato, che si serve del Mediocredito centrale e a sua volta delle banche, sono la prova provata che così non funziona: troppo tempo per costruire le norme e soprattutto per metterle a terra. Ed è gravissimo, perché la liquidità sta a un’impresa come l’ossigeno al corpo umano: se non arriva subito, muore.
Anche al netto dell’insopportabile scambio di accuse tra le varie parti in causa (altro tempo perso), da questa piccola esperienza – che sul Sole abbiamo seguito passo dopo passo – emerge con chiarezza subito una prima lezione: servono strade diverse, nuove. Soprattutto più corte.
Non ce ne sono molte.
Mi ha colpito leggere, sabato, una breve ma efficace riflessione di Giorgio Gobbi, Capo del Servizio Stabilità finanziaria e due ricercatori della Banca d’Italia, Francesco Palazzo e Anatoli Segura, pubblicata prima su voxeu.org e poi sulle note Covid di Via Nazionale (dove peraltro si tiene a precisare che “le opinioni espresse sono personali e non riflettono necessariamente la posizione della Banca d’Italia”). In due pagine, molto chiare, i tre spiegano perché con le garanzie si andrà poco lontano: per il bene di tutti ma anche del suo bilancio, lo Stato farebbe meglio a concedere quegli stessi contributi a fondo perduto.
Per l’impresa in questione, i benefici sono evidenti: un bonifico e via, niente pratiche, interessi e capitale da rimborsare. E nessuna tentazione di cedere ai canali parabancari – sempre aperti – o ad altre scorciatoie che portano dritte nel burrone. Ma anche per lo Stato, si sostiene, è meglio fare un regalo oggi che vedersi escutere una garanzia domani. E pure per le banche, che si risparmierebbero almeno una parta della nuova – sicura – abbuffata di Npl, cause legali, etc etc.
Troppo buoni? Forse. Ma se è vero, come è vero, che il costo sarà altissimo per tutti (perché lo Stato siamo noi), tanto vale non perdere tempo. E non illuderci che noi italiani, resilienti, creativi, geniali ce la faremo semplicemente tirando la cinghia e stringendo le chiappe. Pensavamo così anche nel 2008/09, quando in giro per l’Europa si ripulivano le banche dai crediti deteriorati e noi credevamo di non averne bisogno semplicemente perché siamo diversi.
Basta guardarsi intorno per capire che tutti noi, soprattutto noi che la crisi la guardiamo da una certa distanza di sicurezza, stiamo sottostimando gli effetti pervasivi che sta avendo nelle tasche e nelle case di centinaia di migliaia di persone.
Forse è davvero l’ora di uscire dal seminato. E di aprire la cassetta degli attrezzi d’emergenza. Che peraltro si evocavano già prima, in tempi non sospetti, come dimostra quel volteggiare d’elicotteri che già nei mesi scorsi – quando godevamo di apparente buona salute – spuntava nei dotti consessi, dove si evocava l’helicopter money per stimolare una crescita già poco brillante.
Nessun pasto è gratis, siamo d’accordo. Ma quando il rischio è morire di fame prima si mangia e poi si paga. E visto che stavolta è chiaro che – in Italia come altrove – pagherà lo Stato, tanto vale non perdere tempo e arrivare subito al piatto forte.
(Nell’immagine in alto, un popolare attore tailandese impegnato con una donazione in contanti in un sobborgo di Bangkok)