Venerdì Paolo Savona ha volato alto a Piazza Affari. Forse pure troppo, ha sommessamente osservato qualcuno, visto che al presidente della Consob non per forza si chiede un discorso sullo stato dell’unione. Ma il professore ha volato altissimo: storia, filosofia, economia, politica. Una lectio magistralis, di cui il neo presidente dell’Authority si è anche scusato: “Parlo per chi ci guarda da casa in televisione”, ha puntualizzato guardando il governatore Ignazio Visco che lo ascoltava a capo chino in prima fila nel suo excursus sull’evoluzione del debito pubblico italiano dal dopoguerra a oggi.
Non fosse che l’Italia rischia di ritrovarsi nel mirino della prima procedura d’infrazione mai avviata dalla Commissione europea e che dal Csm si sta aprendo una paurosa e inquietante crepa su un architrave del Paese, le parole di Savona avrebbero sicuramente ottenuto più attenzione di quella che si sono prese.
Ma le priorità dell’agenda, in questo momento, sono altre. E forse sono le stesse che rendono non facile tradurre in pratica quel che Savona ha delineato in teoria. Ed è un vero peccato.
Il discorso del Presidente
Difficile sintetizzare senza imprecisioni, ma ci provo: l’Italia, anzi lo Stato italiano ha iniziato a indebitarsi negli anni ‘70 quando si è trovato a combattere con le armi spuntate la prima vera crisi economica del dopoguerra. Non avevamo scelta, quindi non può essere considerata una colpa l’aver portato il debito dal 50% del Pil degli anni ‘70 al 105% del 1992. Tutto quel che è accaduto da allora è conseguenza di quel preciso momento storico, e comunque poteva andare peggio: oggi l’Italia ha un debito pubblico pari al 132% del Pil, è vero, ma ha anche un risparmio privato quasi senza eguali. E’ come se in questi anni il Paese avesse trovato – o meglio costruito – il suo giacimento di petrolio, che oggi ci rende esportatori netti di capitali. Proprio come l’Aurabia Saudita o la Norvegia, che di petrolio sono piene. Peccato che una parte considerevole di queste risorse finisca all’estero, a finanziare prodotti e progetti imbastiti da soggetti stranieri, e non rimanga in Italia. Magari sottoforma di BTp, che altro non sono che un finanziamento al Paese: oggi la quota dei Titoli di Stato italiani in mano (direttamente) ai risparmiatori è appena il 5,9%, ovvero 138 miliardi su 2.322 totali.
La via d’uscita
Certamente è un’occasione persa. Che lo Stato paga due volte: deve finanziarsi in altri modi e vede “stigmatizzato” il problema del debito, che ci rende – soprattutto di questi tempi – zimbello d’Europa.
Come uscirne? Savona ha le idee chiare. Primo: smettendola di demonizzare, in ogni direzione, il debito. L’Italia (finora) ha sempre ripagato i suoi debiti, dunque i titoli di Stato meritano da un lato di essere considerati “ricchezza protetta”, e dall’altro di non sottostare a particolari vincoli dimensionali. Un esempio? Ma il Giappone, naturalmente. Con il suo debito al 200% e comunque la sua aria da primi della classe.
Basta avere una base di risparmio sufficiente (e ce l’abbiamo), nonché una fiducia nel paese solida (più o meno). E poi il debito può salire, più o meno fin che vuole, purché cresca meno del Pil.
Ecco il punto: se cresce la ricchezza, può crescere anche il debito. Se la giriamo come un’equazione: il debito può crescere, purché cresca un po’ di più anche la ricchezza.
Ed è qui, temo, che non ci siamo. E che la teoria si confronta drammaticamente con la pratica. Cioè la politica. Che – basta guardare l’ennesimo braccio di ferro con l’Europa – ignorante della lezione di Savona ma prima ancora del buon senso preferisce partire dal debito garantendo gli effetti su una crescita che poi, a conti fatti, non arriva mai. O si materializza meno del previsto.
Il vicolo cieco
In teoria ha ragione, Savona. Serve più fiducia e meno pregiudizi. Ma è troppo bello, o troppo facile, per essere vero. La storia recente, fatta di mance pre-elettorali, spot fiscali e promesse non mantenute, ci ha dimostrato che quella fiducia l‘Italia non è capace di costruirla, nè dentro nè fuori. Nè tra gli elettori mai così ondivaghi né sui mercati, né in giro per l’Europa. Forse non è solo un problema politico (il turnover c’è stato ma senza effetti), siamo un sistema troppo appesantito da zavorre anagrafiche e di sotto-produttività. Ma la lezione di Savona continuiamo ad applicarla solo a metà: prima il debito, poi si vota e poi si vede.
In pratica: cornuti e mazziati?