L’Italia che le dà (Atlantia), l’Italia che le prende (PopVicenza e Veneto banca), il sorpasso di Ferrari su Fiat, gli appetiti (?) su Alitalia: c’è fermento nella piazzetta finanziaria italiana.
L’Atlantia dei Benetton, dopo lunghe pensate e calcoli certosini, si è decisa a lanciare l’offerta sugli spagnoli di Abertis: in ballo c’è la possibilità di creare il primo gruppo autostradale mondiale. Mica poco. Sarà che in Italia siamo più abituati a prenderle che a darle, sarà per la vecchia storia dell’albero che cade e della foresta che cresce, ma di questa cosa in questi giorni se ne è parlato, sì, ma non tantissimo. Prendiamolo come un gesto scaramantico. E d’altronde non è ancora fatta: l’azionista di riferimento di Abertis (su cui pare costruita l’offerta), ovvero la Caixa di Barcellona, non è propriamente una controparte agevole. E’ una specie di Fondazione Cariplo in versione Opus Dei con il doppio di patrimonio (11 miliardi), un sacco di partecipazioni strategiche (c’è Abertis ma pure Telefonica, Suez, Repsol, oltre alla Caixa banca) e un pelo che la metà basta. Auguri.
Quando un anno fa era scoppiato il dieselgate, con le emissioni truccate per superare i test anti inquinamento, la prima vittima illustre era stata Volkswagen. Tutti avevano gridato allo scandalo, tranne qualcuno. Chi? Gli altri costruttori. Per educazione, forse. O più probabilmente perché ognuno sapeva di avere qualche scheletruccio nell’armadio, o comunque di correre qualche rischio. Se n’è avuta conferma in settimana, quando la Fiat si è trovata al centro di una nuova procedura di infrazione della Commissione europea contro l’Italia; a ciò si aggiungono i timori di nuovi provvedimenti negli Usa, e dunque il titolo del Lingotto è crollato. Con un effetto che ha dell’incredibile: per qualche ora Ferrari in Borsa valeva più di Fca, entrambe di poco sopra a 14 miliardi. Alla faccia.
Il triumvirato che guida Alitalia in amministrazione straordinaria ha avviato le procedure di vendita della compagnia. C’è ottimismo nel Governo, e pure tra i commissari, che dopo aver garantito che il prestito (prestito?) ponte di 600 milioni concesso dallo Stato sarà sufficiente a gestire la fase transitoria si sono messi al lavoro sull’estate ormai alle porte, sull’inverno e pure sul 2018, caso mai fosse utile lasciare qualche buona pensata a chi comprerà, se comprerà. Ma è la stessa compagnia che ha bruciato un sacco di soldi finché era di Etihad? Mah.
La via crucis di Mps, Popolare Vicenza e Veneto Banca ostaggio di Bce e Commissione europea da mesi, in attesa di ricevere l’agognata ricapitalizzazione pubblica, prosegue. Ma la settimana ha rivelato che la posizione delle tre banche è ben diversa: per Mps si profila un accordo a giorni, nonostante qualche imprevisto. Per le due ex popolari venete invece siamo ancora al pallottoliere: le ultime verifiche effettuate dalla Commissione europea avrebbero fatto emergere la necessità di un miliardo di capitale in più da parte dei privati (e uno in meno a carico dello Stato) nell’ambito della ricapitalizzazione da 6,4 miliardi per fronteggiare le maggiori perdite sui crediti deteriorati (che non possono essere coperte con soldi pubblici). Da dove arriverà il miliardo? Al momento, pare, stiamo a zero. Anche perché il soggetto in questione, oltre a essere privato, dovrà pure dichiararsi pronto al martirio: iniettare un miliardo adesso nelle venete significa prepararsi a perderlo, o comunque a contare poco o nulla come soci di minoranza dello Stato. Sta di fatto che la matassa è ancora assai ingarbugliata. Non avessimo un sacco di conti in sospeso con la Commissione europea, ci sarebbe da battere i pugni sul tavolo. Ma, appunto, l’Italia non può permetterselo. Però si rischia, e tanto: per trovare la quadra – sempre che si trovi – su Veneto e Vicenza ci vorranno ancora settimane, forse mesi, e con “la continuità aziendale a rischio”, come non manca di ripetere il ceo do Vicenza Fabrizio Viola, c’è poco da scherzare.