Oltre alla sfiducia del cda e più di forzature para-complottiste architettate dalle parti di Via XX Settembre, dietro alla fine della stagione Mustier in UniCredit c’è una questione di feeling. Condivido le riflessioni pubblicate sul Sole di ieri.
Questione di feeling. «Con il mercato ce n’è ancora un po’, con la banca quasi niente». Una seconda linea UniCredit fotografa brutalmente l’altro grande nodo venuto al pettine in queste ore in Piazza Gae Aulenti. Perché mentre sul tetto della torre si discuteva in seduta quasi permanente del futuro dell’istituto ma soprattutto del suo ceo Jean Pierre Mustier, nei piani bassi è progressivamente maturata quella che un ex manager non esita a definire «esasperazione» più che per l’uomo per uno stile di guida. Che non ha mai attecchito fino in fondo in una struttura già abituata ai cambi di registro, visto che in precedenza era passata dai modi decisi di Alessandro Profumo a quelli improntati all’ascolto e alla tolleranza di Federico Ghizzoni.
Una questione di sintonia e prima ancora di empatia, questa volta. che va ben oltre alla dialettica sindacale spesso improntata a toni decisamente bruschi, come dimostrano ad esempio le sparate a zero di Lando Sileoni della Fabi.
L’aumento di capitale monstre
Nel rapporto incrinato con le persone c’era qualcosa di strutturale, che risale nel tempo. E che ora sembra venuto a galla tutto insieme. Compiuto il grande risanamento di fine 2016-inizio 2017, che ha visto il manager francese portare a casa l’aumento più grande di sempre per una banca europea (13 miliardi) accompagnato da una riduzione del perimetro societario a colpi di cessioni, ha faticato a prendere forma la fase successiva, la nuova normalità fatta di gestione ordinaria, prassi, rapporti tra prime, seconde e terze linee oltre che con la clientela.
La gestione delle risorse
Quando top manager, gestori e bancari si attendevano che la pressione si potesse finalmente allentare, la gestione – fanno notare diverse voci raccolte da Il Sole 24 Ore – è rimasta quella tipica di una fase di crisi, improntata a un monitoraggio strettissimo dei processi, a una suddivisione certosina delle responsabilità dentro a un organigramma in continuo mutamento.
Con il risultato di aver deresponsabilizzato buona parte della piramide, con le prime linee affaticate da una marcatura stretta, intimorite dalla severità di trattamento riservata a chi commetteva errori, e la base intrappolata in uno spazio di manovra vissuto come sempre più stretto. Su tutto, la difficoltà a capire e condividere da parte del popolo di UniCredit un’attenzione alla creazione di valore finanziario, quello che piace agli analisti prima ancora che agli investitori, a scapito di quello commerciale.
Le scelte di marketing
E poi alcune scelte di marketing, dall’ossessione per le cravatte rosse alla mascotte, e soprattutto i costi, una cura maniacale dei costi vissuta in prima persona dal ceo che vola in economy e viaggia in Cinquecento, ma mal supportata da una struttura che spesso ha trovato le scelte inefficienti. “One bank, One UniCredit”, recitava lo slogan del piano di engagement lanciato da Mustier quattro anni fa. Diagnosi giusta, terapia riuscita a metà.
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