La presenza di un nutrito consorzio di garanzia a tutela dell’aumento di capitale da 700 milioni del Credito Valtellinese, così come il fatto di essere riusciti a rispettare la tabella di marcia e partire prima delle elezioni, lascia ben sperare quanto all’esito dell’operazione: per quanto delicata, le possibilità che vada in porto sono tante.
Ma non è una passeggiata. Così come non lo è stata l’aumento da mezzo miliardo di Carige di fine 2017 o tantomeno la maxi manovra da 13 miliardi che un anno fa di questi tempi portava a casa UniCredit.
Le cifre sono diverse, molto diverse. Così come il rapporto tra il valore di Borsa e l’importo chiesto al mercato: Jean Pierre Mustier ha costruito l’aumento più grande di sempre per una banca europea di area euro, ma quando si è presentato al mercato UniCredit capitalizzava ben di più dei 13 miliardi chiesti e ottenuti; pur essendo sotto il miliardo, invece sia Carige che CreVal hanno imbastito operazioni di importo di gran lunga superiore alle poche decine di milioni di valore a Piazza affari.
Il dettaglio può sembrare tecnico, ma l’effetto è pratico.
Tanto meno vale la banca (e quindi le quote in mano ai suoi azionisti) che va a raccogliere nuovo capitale, tanto più alto è il rischio per i suoi vecchi soci di veder cancellata la propria partecipazione dentro al capitale dell’istituto una volta rinforzato. Non a caso, sia per Carige che per CreVal un ipotetico azionista al 10% avrebbe visto ridotta allo 0,2% circa la sua quota qualora non avesse partecipato all’aumento, peraltro mettendoci un sacco di soldi; e lo stesso, in proporzione, vale per i piccoli soci: chi non difende la quota è destinato pressoché a sparire, e così a perdere la quota degli utili che – una volta tornati – potrebbero essere distribuiti.
E qui siamo all’analogia che lega le tre operazioni. Tre pulizie generali che hanno tolto dalle banche fette importanti dei crediti deteriorati che ne minavano alla radice la sostenibilità finanziaria, e hanno consentito ai manager di offrire – con l’aumento – banche nuove, leggere e prospetticamente più redditizie. Che non a caso, per lo meno nel caso di UniCredit e Carige, sono state comprate.
Il fatto è che le pulizie sono state, sempre, a carico dei vecchi soci. Come dire: banca nuova, sì, ma a carico dei vecchi soci, chiamati a perdere quasi tutto il proprio investimento e a rimettere mano al portafoglio per restare tali.
Considerata la situazione in cui versavano, e le pressioni della Vigilanza, per i manager non c’erano cure alternative. Per i soci, però, il dolore (cioè il danno) è di quelli forti.