Nella settimana che forse non ricorderò per la sconfitta elettorale di Theresa May figlia di un’arroganza politica che fa invidia a Matteo Renzi ma senz’altro per la promozione del Benevento in serie A, si è consumata l’ennesima tappa della via crucis di alcune banche italiane. Con un fattore in più di amarezza: la soluzione mediante risoluzione della crisi spagnola del Banco Popular, che alla fine è andato al Santander per un euro e altri 7 miliardi destinati a irrobustire gli accantonamenti su 37 miliardi di crediti deteriorati.
A ben guardare il paragone regge fino a un certo punto, ma per il morale è stato un colpo pazzesco. Peggio del 4-1 della mia Juve in finale di Champions: manco il tempo di renderci conto che pure la Spagna aveva la sua bella gatta bancaria da pelare ed ecco che è arrivata la soluzione.
Ripeto, l‘analogia regge fino a un certo punto. Il Banco Popular, oppresso dagli Npl esattamente come le nostre Mps o Vicenza (anzi forse un po’ di più) dopo una settimana di crollo in borsa nello spazio di una notte è stato acquisito per un euro dal Santander, con l’azzeramento di azioni, strumenti ibridi e bond subordinati: non il bail in, dunque, ma una condivisione del rischio che ricorda da vicino quella applicata in Italia per Etruria & Co. Più della soluzione, assai onerosa per centinaia di migliaia di risparmiatori, a colpire sono stati i tempi della soluzione, brevissimi, e l’assetto che ne è uscito: l’istituto, sesta banca spagnola, è finito in pancia dal Santander, che ora è leader retail in Spagna e grazie anche ad un aumento da 7 miliardi potrà curarne le ferite nei tempi che riterrà opportuni.
Ecco, a pensarci bene con un po’ di calma, è questa una differenza davvero sostanziale rispetto alle crisi di casa nostra: Mps, Popolare Vicenza, Veneto Banca. In Spagna ci hanno messo poche settimane, noi è da dicembre che discutiamo con Bce e Commissione europea per poter far entrare lo Stato, e – soprattutto per le venete – non siamo ancora al buono. Ma c’è un altro elemento che, alla luce dell’epilogo del Popular, ora mi colpisce anche di più: se e quando entrerà lo Stato, le banche saranno comunque da sole (o al massimo fuse tra loro, nel caso di Vicenza e Veneto), questo vuol dire che dovranno trovare al loro interno e non in una grande banca acquirente stile Santander le forze per riprendersi da sei mesi e anche di più di prime pagine sui giornali, emorragia di depositi, allarmi ripetuti dentro e fuori dalle filiali. In pratica: se anche sopravviveranno, come si spera, a questo passaggio, sarà solo l’inizio di un altro percorso tutt’altro che facile.
E già che ci siamo: per il Monte sembrava chiusa, e invece mica tanto. Comprensibilmente, dal loro punto di vista, i fondi acquirenti degli Npl – Atlante, Fonspa, Fortress – decisivi con la loro offerta non vincolante per ottenere il primo ok preliminare da Bce e Dg Comp ora chiedono di rivedere il prezzo delle sofferenze. Cioè chiedono lo sconto: forse è solo una mossa negoziale, certo è che si aggiunge un tornante pure alla strada del Monte.
La colpa, si diceva, è degli Npl. Dei crediti in sofferenza, sul cui prezzo se ne possono dire di ogni. Fino a qualche anno fa era tema da specialisti o feticisti, ora se ne ragiona spesso pure in televisione: sta di fatto che gli Npl, largo circa 350 miliardi nella pancia delle banche italiane, oltre a essere la principale causa della crisi del credito in Italia, che ha il record in Europa quanto ad ammontare, non hanno prezzo. Per natura, essendo crediti non pagati da un debitore che può essere sparito, morto, fallito o semplicemente temporaneamente impossibilitato di onorare il proprio debito: le variabili che incidono sul valore di un credito inesigibile sono tantissime, le banche – un po’ perché ci credono, un po’ per non affossare i loro bilanci – tendono a non ridurlo troppo, chi è disposto a comprarli li vuole pagare pochissimo. Di qui trattative lunghissime, questioni politiche e poche vendite. Un pantano in cui si trova anche Carige, dove l’azionista di maggioranza, Vittorio Malacalza, che due anni fa ha investito circa 250 milioni di cui ora gliene sono rimasti circa 40, vuole a tutti i costi evitare una svendita delle sue sofferenze, o comunque una svendita che non consenta alla banca di recuperare in futuro almeno parte del valore che si riuscirà a recuperare. Per questo ha cacciato l’ad Guido Bastianini e ad ore ne arriverà un altro (dovessi scommettere un euro, lo farei su Marina Natale ex UniCredit), il fatto è che il tempo è dannatamente poco, la banca sta malino e la Bce pressa. God bless la Lanterna, l’elenco degli istituti sull’orlo del baratro è già abbastanza lungo senza Carige.
Mi sia concessa una digressione calcistica. Ieri, a poche ore dal trionfo della nazionale che ha spezzato le reni al Liechtenstein (si scrive così?), si è chiusa con un nulla di fatto l’asta della Lega (commissariata) per i diritti del calcio di Serie A. Pare si sia offerto troppo poco da troppi pochi. Dico pare, perché ne capisco poco e la questione è tecnica assai. Tutti a dire che il calcio italiano vale molto di più, o comunque non meno di quello tedesco, francese, inglese: siamo alle solite. Pure sul calcio.
(nell’immagine, la Fiesta del inmigrante in Argentina)