Poste italiane nei giorni scorsi ha presentato i conti 2016, migliori delle attese. E maggiore delle attese sarà il dividendo che riceverà lo Stato, 330 milioni contando sia la quota del Tesoro, azionista al 29,7% (e non più venditore, come si immaginava fino a qualche settimana fa) e la Cassa depositi e prestiti, che ha il 35%. I risultati sono arrivati proprio mentre tra Via XX Settembre e Palazzo Chigi si lavora sulle nomine ai vertici delle principali partecipate pubbliche, una tornata che vede il ceo Francesco Caio fortemente a rischio.
Curioso: nei suoi tre anni da ad, Caio ha triplicato i profitti (dai 212 milioni del 2014 ai 622 del 2016) e ha chiuso l’ultimo esercizio con ricavi totali a 33,1 miliardi (+7,7% sul 2015) e un risultato operativo a 1.041 milioni (+18,3%). La posizione finanziaria netta ha un avanzo di 6,2 miliardi rispetto all’avanzo di 8,7 miliardi al 31 dicembre 2015. Numeri lusinghieri, che hanno visto buona parte degli analisti esprimersi a favore di un rinnovo del manager.
Ma il giudizio dell’azionista pubblico resta incerto.
Perché? Caio ha il merito di aver fatto quello che doveva secondo il mercato (più ricavi, spinta al risparmio, riduzione dei costi, riorganizzazione dei servizi di consegna), ma avrebbe anche il demerito di non aver eseguito altrettanto bene quello che il Governo gli ha chiesto in più: gestire con cautela gli esuberi e la riduzione dei servizi postali nelle aree periferiche (temi politicamente assai sensibili), fare di tutto e di più per rilevare – insieme all’azionista Cdp – Pioneer, la grande società del risparmio gestito di UniCredit finita poi nelle mani di Amundi insieme ai suoi 30 miliardi di BTp. Un’operazione, guarda caso, conclusa all’indomani del referendum perso da Matteo Renzi e che fa del polo Amundi-Pioneer uno dei principali detentori di debito pubblico italiano (80 miliardi).
Dunque: Caio va promosso per la gestione efficiente o bocciato perché si è limitato a una gestione efficiente?
Il responso si avrà nelle prossime ore. Ma il problema resta un altro: per Poste (e non solo), sarà sempre più difficile conciliare le esigenze del mercato con quelle di un azionista pubblico che talvolta sembra dimenticare che dal 27 ottobre 2015 Poste è una società quotata. Dunque sul mercato.