La Commissione Finanze del Senato ha deciso di togliere la black list dalle norme introdotte dal decreto-salva risparmio. In pratica: anche quando interverrà lo Stato con capitali pubblici, una banca salvata – è il caso ad esempio di Mps – non sarà obbligata a dare i nomi dei primi 100 debitori insolventi. Sarà sufficiente pubblicarne “i profili”, secondo quanto previsto dalla mediazione proposta dal presidente della Commissione, Mauro Marino.
La vicenda è più politica di quanto non sembri, e anche un po’ demagogica. Parte dall’idea, fondata, che spesso a causare la crisi di una banca siano stati i crediti deteriorati, cioè prestiti non rimborsati. La colpa è di chi quei crediti li ha concessi, ma anche di chi quei soldi -tanti – non li ha restituiti. Di qui appunto la proposta di comunicare nomi e cognomi dei cento più grandi debitori, che – in quanto tali – hanno contribuito in misura importante al dissesto della banca.
Una sorta di tolleranza zero in cambio del conferimento di risorse pubbliche. Del tipo: il popolo paga ma vuole vedere i colpevoli. Che peraltro spesso sono già noti, come nel caso dei grandi debitori di Mps.
Alla fine in Commissione si è pensato di stendere un velo pietoso. Evitando un paradosso: fino a pochi mesi fa, quando la crisi bancaria non era deflagrata, in quelle stesse aule molti onorevoli chiedevano di maneggiare con maggior cura la comunicazione alla centrale rischi degli imprenditori insolventi, visto che può bastare una segnalazione – magari pure erronea – a moltiplicare in pochi giorni le difficoltà di un’impresa.
Si rischiava di passare da un estremo all’altro, dalla massima inclemenza alla pubblica impiccagione. Un po’ troppo.